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L’Inferno di Dante.
Così descrivono molti la loro iniziazione nel percorso del dolore cronico. Un battesimo, l’attraversamento di una porta, così come gli psicoanalisti la intendono. Il dolore contrassegna una nuova vita.
L’inferno di Dante la cui porta, una volta attraversata, non si torna più indietro.
Il percorso fino ad arrivare a questa porta, è colmo di tentativi di spiegare la propria sofferenza a noi illustrissimi medici, di preghiere a entità inesistenti o esistenti, di richieste e speranze di accettazione a chi ci sa amare, di senso di colpa per la propria condizione.
Questo è solo l’inizio del percorso che guida alla porta dell’inferno di Dante.
L’inizio della fine.
La fine della vita precedente: la fine della qualità di vita come i “sani” la intendono e come anche noi con arroganza la intendevamo. Il nuovo compagno di vita, quello che ci sveglia e a cui pensiamo al mattino prima di aprire gli occhi. Il suo nome è Dolore. Con la D maiuscola, per rispetto del suo ruolo e della sua potenza.
Ignorarlo, in un’altra cultura, sarebbe considerata una υβρις, un atto irrispettoso nei confronti degli dei e di quel che pesino loro rispettano. Il dolore fa parte della Natura, quello sfondo immutabile che nessuno creò e che a nessuno appartiene.
Nella nostra cultura Cristiana, il dolore rappresenta invece la punizione divina per il peccato originale. Per chi non ricorda la Bibbia, si può leggere il relativo passo qui. Questo concetto ha intriso la nostra vita e mentre le altre malattie non vengono accettate, ci impegniamo per la loro cura fino a parlare di “accanimento”, il dolore non viene considerato una malattia. Il colesterolo alto sicuramente condiziona la nostra quotidianità molto meno del dolore cronico; ma i pazienti accettano senza domande di assumere per tutta la vita una cura specifica. Ma l’antidolorifico “no”, fa male. Il che in parte è vero, ma oggi esistono farmaci che anche se assunti per tutta la vita, non creano danni all’organismo.
“Si sa”: gli antidolorifici fanno male e vengono assunti solo quando si è prossimi al suicidio o qualcosa del genere. Il dolore non è una malattia. E’una giusta punizione divina. Bisogna farsene una ragione.
Forse.
La porta
Ma torniamo alla porta di Dante. Per attraversarla bisogna lasciare ogni speranza: ogni precedente ricordo, ogni progetto di vita, ogni aspettativa futura. Rodin è forse l’artista che più di ogni altro ha avuto paura di attraversare la porta, scolpendola per 30 anni per morire senza mai terminarla.
Nella sua rappresentazione, sotto lo sguardo del pensatore (forse dello stesso Dante), emergono i corpi dei dannati: contorti, urlanti, spinti verso il vuoto mentre cercano di sfuggire al loro destino. In questo magma di 180 corpi appartiene anche il Conte Ugolino: il duo destino era leccare il cranio di un vescovo e infine mangiare i propri figli per sopravvivere. L’emblema del dolore della psiche che non differisce, diventa anche dolore del corpo.
Il viaggio oltre la Porta
Mentre il viaggio di Augusto Rodin si interrompe con la sua morte, quello di Dante è soltanto al principio.
I pazienti con dolore sono come Dante: attraversano ogni giorno la porta del mio studio, con la saggezza che anni di sofferenza gli hanno regalato, la consapevolezza della propria vita, del proprio stato e della propria dignità perduta, lo sguardo profondo che non è più in cerca di promesse. Ogni tanto riaffiorano le mie origini: offrire ai mortali “tufles elpides”, cieche speranze, veniva considerato un gesto gravissimo. Per questo Zeus ha incatenato il semidio Prometeo alla roccia, condonandolo all’eterno supplizio. Ecco: offrire promesse che sappiamo già essere fasulle, o promesse che nella nostra ignoranza non sappiamo essere infondate, è diabolico.
Torniamo ai nostri tempi: il paziente arriva da me spesso spinto da un benefattore che crede ancora nella vita. Di quelli che riescono a vedere ancora la speranza nel futuro. Si raccontano e nel frattempo mi caricano di una responsabilità: “Lei, dottore, sarà l’ultimo che vedo. Sono stato convinto a venire fin qui, io non so neanche se volevo. Ho visto 30 suoi colleghi in questi anni, ho speso un appartamento e non è cambiato nulla”. Se siete pazienti affetti da dolore cronico sapete che non sto esagerando. E’ una frase che avete pronunciato o che sareste in grado di pronunciare fra qualche anno.
Talmente è frequente questa affermazione, che pure la risposta è diventata stereotipata: una mia sonora risata e poi le parole “sapesse signora (di solito sono femmine) quante volte da stamattina mi sono sentito dire le stesse parole! Sono oramai abituato. D’altronde, chi sta bene con i farmaci o con la fisioterapia, perché deve venire da me?”. Al che aggiungo: “io faccio questo di mestiere, curo il dolore. E mi riesce bene. Facciamo un patto che da oggi in poi vale per tute le mie cure ma anche per le cure di ogni mio collega che vedrà (se mai) nel futuro. Ogni volta che ci vedremo Lei dovrà stare meglio. Sennò ho fallito. Lei mi spiegherà tutto quello che ha, perché Lei sa cosa ha, io no. Io cercherò di capire e cercherò di aiutarla. Magari non vivrà senza dolore. Ma il mio scopo sarà di migliorare la Sua vita. La ascolto”.
Così i pazienti si raccontano, si aprono. Basta dargli tempo e rispettare le loro parole. Eugene Braunwald, uno dei medici più importanti del secolo scorso, ha dimostrato con uno studio che tre diagnosi su quattro potevano essere formulate in modo esatto, solo basandosi sul racconto del paziente. Forse sottostimava un pò, per quel che riguarda il mio settore.
L’inizio del viaggio per la cura del dolore cronico
Un rapporto di fiducia si basa sul rispetto reciproco. I pazienti non si abbandonano mai. Il paziente non deve avere mai la sensazione di essere truffato, sfruttato. Il paziente va sempre ascoltato e rispettato. Mai aggredito, mai costretto. Si chiede sempre il suo permesso anche solo per visitarlo. Ed il paziente deve pagare quello che è giusto, quello che corrisponde alla mia professionalità ma che gli permette di tornare se serve, per farsi curare.
I nostri “gironi” infernali
Tutti noi siamo cresciuti in una comunità cristiana. E come il cristianesimo ci ha insegnato: nel passato esiste il peccato, nel presente la redenzione e nel futuro la salvezza. Il cristianesimo ci ha promesso l’eternità corporea. Persino la resurrezione dei corpi.
Qui nasce una grande confusione: i pazienti dichiarano nel non credere più di avere speranza, ma vengono da me perché in fondo sono dei buoni cristiani (almeno per cultura) e non possono negare che la speranza esisterà sempre. Sono solo depressi, come il 60% dei pazienti con dolore cronico: questa percentuale sviluppa depressione secondaria anche se non esiste la predisposizione per la depressione. E’ normale, di questo cerco di convincere i miei pazienti: è normale essere depressi quando ti muore un cane con cui hai condiviso 15 anni di vita (ciao Lemon), normale essere depressi quando perdi un figlio, normale essere depressi quando la tua vita è devastata e pervasa dal dolore.
I pazienti spesso guardano il loro passato e non si riconoscono, gradirebbero un viaggio nel tempo. Questo mi fa pensare al grande Sandro Botticelli, che a un certo punto della sua esistenza accetta la sua evoluzione. Abbandona le opere iconiche pagane di bellezza per le quali era famoso e si dedica alla rappresentazione del Grande Poema. E’ forse il primo pittore a rappresentare con tanta precisione l’inferno di Dante.
Caronte
Alla fine della nostra storia c’è Caronte. A volte mi sento così, non aspirando alla sua notorietà, ma riferendomi al suo ruolo infame. Il traghettatore che aiuta le anime a trovare una strada verso il futuro, oltre la porta del non ritorno. Ma lo fa dietro un compenso, come se il carcerato dovesse pagare per venir rinchiuso.
Sono cresciuto in una casa semplice, molto vicino ad Acheronte, il fiume traghettato da Caronte che lasciava anime povere sulle sponde del fiume e trasportava con calma i fortunati verso l’Oracolo alle porte di Ade. Forse erano le stesse porte di Dante. Una volta salì su un traghetto con un vecchio che accompagnava noi turisti verso l’Oracolo. Quel giorno il mare era conciliante e potemmo uscire per visitare anche la grotta di Persefone. Ma il vecchio analfabeta raccontò la storia di Caronte tramandata ai nostri tempi. I suoi avi non avevano mai lasciato quei luoghi. La storia con tempo si trasformò, ma era sempre quella. Così, da quel vecchio ho saputo che la madre di Achille, battezzò in quel fiume suo figlio, rendendolo immortale, ma tenendolo per il tallone che non si bagnò.
E la mia storia finisce improvvisamente così. Con la consapevolezza di assomigliare sempre più al vecchio Caronte pieno di dubbi, ma con la certezza dell’esistenza della forza taumaturgica dell’acqua del fiume Acheronte, che tanto può. Forse a volte più di me.